IL MASSACRO ALLA MOSCHEA DI HEBRON
Tratto dal blog di Piero Maderna “Questa è la nostra terra”
(tempo di lettura circa 2 minuti)
Il 25 febbraio 1994 è una data che ha segnato profondamente la storia recente di Hebron. Baruch Goldstein, un membro d’origine statunitense della Lega di Difesa Ebraica, residente a Kiryat Arba, medico ed ex ufficiale dell’esercito, penetrò nella moschea di Abramo in uniforme, evitando quindi i superficiali controlli militari predisposti, e trucidò a colpi di fucile mitragliatore 29 musulmani in preghiera, causando l’esasperata reazione dei sopravvissuti, che linciarono l’attentatore, e della popolazione palestinese. Dopo il massacro, la città nel 1997 venne divisa in due settori: Hebron 2 (circa il 20% della città), sotto controllo israeliano, e Hebron 1, affidata al controllo dell’Autorità Palestinese, in accordo con il cosiddetto Protocollo di Hebron.
Ad oggi, i palestinesi sono sottoposti ad uno stretto regime di permessi e controlli per accedere a servizi e abitazioni rimaste nella zona sotto controllo israeliano. Per proteggere qualche centinaio di coloni, è stato messo in piedi un sistema che rende la vita quasi impossibile a tutto il resto della popolazione (…)
Shuhada Street, la via dei martiri, che per gli israeliani è King David Street, è oggi in gran parte una strada fantasma, come anche molte altre parti della città vecchia nel settore H2. Niente più negozi, o mercati. 1000 appartamenti vuoti e abbandonati. 1800 negozi chiusi. 100 barriere mobili che chiudono le strade e 23 checkpoint. Diverse strade sono vietate alla popolazione palestinese.
Per arrivare alla moschea di Abramo, proprio quella del massacro, dobbiamo passare un altro checkpoint (…). Da allora la moschea, come la città, è anch’essa divisa in due settori da un muro interno: per metà è adibita a moschea, per metà a sinagoga. Da entrambi i lati ci si può affacciare sulla grotta dove si dice si trovino le tombe dei patriarchi, ma gli accessi sono separati. Se anche volessimo entrare dal lato della sinagoga, oggi non potremmo farlo perché è Shabbat. Issa ha dovuto fare un altro giro per arrivare fin qui all’entrata della moschea, perché lui essendo palestinese in Shuhada Street non può camminare e naturalmente non può entrare nella sinagoga.
Entriamo nella moschea (…). Sostiamo per un po’ nella sala della preghiera. Della grotta dove dovrebbero trovarsi le tombe, non si vede molto. Bisogna più che altro immaginare, farsi trasportare dalla potenza dei simboli. Difficile però non pensare che il simbolo più forte è proprio quella parete divisoria, dall’aspetto anche piuttosto brutto, che taglia in due la moschea-sinagoga.