La presenza dei beduini in Palestina è antica e molto radicata.
Queste cartoline di fine ‘800 documentano forse uno degli ultimi momenti
di vero nomadismo di questo popolo.
Oggi la situazione è molto diversa. Le comunità beduine che vivono fra Gerusalemme e Gerico
sono impossibilitate a muoversi liberamente perché i loro villaggi e i pascoli si trovano in area C,
controllata da Israele. La tradizionale attività di pastorizia è compromessa, con conseguente
aumento della povertà e dell’emarginazione, e la stessa cultura beduina è a rischio.
Vento di Terra da anni collabora con queste comunità in particolare
per garantire il diritto allo studio delle bambine e delle ragazze.
La Scuola di Gomme, in tal senso, è un esempio di ingegno e resistenza.
Nel 2018 la Scuola di Gomme ha rischiato seriamente di venire abbattuta dai bulldozer israeliani.
Radio Popolare ha seguito con diverse corrispondenze quei drammatici momenti.
Tutte le comunità beduine condividono le stesse difficoltà di accesso ai servizi di base.
Negli anni Vento di Terra ha costruito altre scuole, sempre rispettando la norma israeliana
che impedisce di costruire edifici in muratura. È quindi nata, fra le altre, la Scuola di Bambù.
Vento di Terra ha sviluppato diversi progetti che valorizzano e riscoprono la cultura beduina,
a rischio di scomparsa nell’attuale contesto di occupazione. Tra questi, la realizzazione di diversi albi illustrati,
che raccolgono le fiabe tradizionali beduine tradizionalmente tramandate solo oralmente.
Le donne di alcuni villaggi beduini hanno affinato le tecniche tradizionali di lavorazione della lana per produrre presepi,
così hanno una fonte di reddito e contribuiscono al mantenimento della propria famiglia.
L’attività è realizzata in collaborazione con BFTA, una organizzazione locale che sostiene piccoli produttori palestinesi.
Il deserto tra Gerusalemme e Gerico mostra tutta la sua silenziosa e arida bellezza,
fra gole incredibili e punti panoramici mozzafiato con vista sul mar Morto.
Le zone di deserto accessibili liberamente non sono però molte.
Infatti, trovandosi in area C, vaste aree sono anche occupate
dai campi di addestramento militare israeliani.
Qui, nella comunità beduina Sea Level, si trova una realtà locale che offre ai viaggiatori la possibilità
di entrare in contatto con la vita beduina tramite trekking, pernottamenti sotto le stelle
e pranzi e cene sotto la tenda cucinati dalle sapienti mani delle donne.
In Palestina la violazione dei diritti umani passa anche attraverso il turismo.
Infatti, diversi tour operator statunitensi ed europei offrono “pacchetti” con “destinazione Israele”
promuovendo informazioni distorte sulle mete e omettendo la realtà e l’impatto dell’occupazione.
Il settore ha grande rilievo economico, ma i benefici non interessano le comunità palestinesi locali.
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La Scuola di Gomme realizzata nel 2009 da Vento di Terra rappresenta il primo edificio pubblico destinato ai palestinesi costruito in area C dal 1967, ed è divenuta un simbolo del diritto all’istruzione e di difesa dei diritti delle comunità beduine. Si tratta di una struttura senza fondamenta, edificata con pneumatici usati, progettata dallo studio Arcò di Milano per rispondere alle complesse normative imposte dalle autorità israeliane e alle specifiche esigenze delle comunità locali. Le gomme rappresentano una soluzione creativa per non fare fondamenta e non usare cemento, riempite di terra e sassi e intonacate con terra e acqua compongono le pareti della struttura, che acquisisce così una forma morbida e senza spigoli, garantendo un ottimo livello di confort igrotermico, con una differenza di temperatura tra interno ed esterno, sia estiva sia invernale, di 5 – 6 gradi. La scuola è stata realizzata con il contributo della Cooperazione Italiana, della CEI, di UNICEF, OCHA e di una rete di Enti locali lombardi. Ospita 8 classi, per un totale di 180 minori ed è inserita nel Sistema educativo palestinese dall’agosto 2009, le lezioni sono iniziate nel settembre successivo. Nonostante si tratti di una struttura tecnicamente “non permanente”, la scuola ha ricevuto un ordine di demolizione all’atto della sua apertura. È stata inoltre oggetto di costanti attacchi da parte del movimento dei coloni, che la ritiene una “minaccia all’esistenza dello stato di Israele”. A fronte della causa intentata dallo Stato israeliano, dalle colonie limitrofe e da una società stradale israeliana che chiedevano la demolizione della scuola, la Corte suprema israeliana si è espressa nel novembre 2009 invitando le parti a trovare un accordo e ribadendo il valore sociale della struttura. Parallelamente cresceva la notorietà del progetto e si perveniva all’apertura di un ombrello diplomatico in suo favore. La comunità, negli anni rappresentata legalmente, è riuscita ad evitare i vari piani unilaterali di trasferimento forzato proposti dall’Amministrazione Civile Israeliana, organo di afferenza militare che gestisce l’area C. La deportazione delle comunità beduine rappresenta una gravissima violazione del Diritto internazionale (art. 49 della IV Convenzione di Ginevra; art. 43 della Convenzione dell’Aia), eppure riguarda ancora oggi oltre a Khan Al Ahmar numerose altre comunità beduine in area C. Nel 2016 la Corte Suprema si è nuovamente riunita per deliberare su una nuova intimazione di demolizione immediata, esprimendosi questa volta a favore dello “spostamento” della struttura e a seguire nel maggio 2018 ha definitivamente deliberato sulla questione, decretando con effetto 1 giugno la demolizione della scuola e del villaggio e l’allontanamento forzato dei residenti. La decisione ha avuto una notevole eco mediatica, prese di posizione a favore della scuola sono state espresse da esponenti del mondo della cultura e della politica, iniziative e raccolte firme si sono moltiplicate e un presidio internazionale è rimasto attivo a Khan al Ahmar fino all’estate del 2019, come documentano le testimonianze audio che proponiamo in questo webdoc, al quale hanno partecipato numerosi aderenti delle associazioni pacifiste israeliane, palestinesi e internazionali. Il decreto di demolizione è tuttora valido e dopo 13 anni in cui il diritto all’istruzione è stato garantito a centinaia di bambini beduini, la Scuola di Gomme è ancora a rischio.
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“E’ il piatto più buono che abbiamo mangiato in tutto il viaggio”. Chi ha già viaggiato in Palestina e ha avuto la fortuna di assaggiare lo zarb cucinato nella comunità di Sea Level, lo ricorda così. E’ un piatto della tradizione beduina preparato in un forno scavato nella terra, all’interno del quale si accende un fuoco. Il barbecue utilizzato si compone di tre piani di acciaio sovrapposti, su ciascuno dei quali vengono sistemati gli ingredienti. Prima di tutto il pollo tagliato a pezzi e marinato per circa un’ora con il succo di limone fresco, l’acqua, l’aglio tritato, sale e pepe. Poi la verdura – patate, carote e peperoni piccanti – tagliati a tocchetti lasciando più grandi i pezzi della verdura che si cucina con più velocità. Il barbecue così riempito viene sistemato nel forno, che viene chiuso con un coperchio per trattenere l’umidità degli ingredienti durante la cottura. Ci deve essere più di un trucco a rendere il piatto una vera delizia, ma non ci è mai stato svelato. Per mangiarlo consigliamo di andare in Palestina, perché rifarlo a casa sarebbe complicato e soprattutto per non perdere l’atmosfera della tenda beduina, dove si mangia seduti su grossi e comodi materassi, accompagnando il tutto con hummus di ceci, yogurt, insalata di pomodori e cetrioli e l’immancabile shrack, il tipico pane beduino, sottilissimo e morbido come un panno.
di Serena Baldini
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Guardando il cielo Jamil dice che domani potrebbe piovere nel deserto tra Gerusalemme e Gerico, di solito succede quando come oggi l’aria è carica di umidità e da sud fanno capolino alcune nuvole, nonostante sopra le nostre teste il cielo sia quasi sereno. Se piove è un buon segno e i luoghi dove cadrà la pioggia a primavera saranno i migliori per il pascolo delle capre. La cultura e la vita beduina in Palestina sono profondamente legate al deserto, ne conoscono ogni segreto. E nonostante la stanzialità forzata, dovuta all’espansione delle colonie israeliane e alla presenza di aree di esercitazione militare inaccessibili, il contatto con gli spazi aperti del deserto rimane profondo, così come la capacità di trasformarlo in un luogo ospitale e ricco di risorse. Bastano pochi legnetti per improvvisare un fuoco sui sassi e non far mai mancare un bicchiere di tè caldissimo e dolce, un semplice tappeto e pochi cuscini per improvvisare un salotto con vista sul Mar Morto, un piccolo braciere per preparare in pochi minuti carne e verdure deliziose da afferrare con lo shrack tipico pane beduino. E quando compare la prima stella della sera, il cielo diventa un libro aperto grazie a cui riconoscere i punti cardinali, il cambio delle stagioni e delle ore, mentre le volpi del deserto arrivano anche loro a salutare il crepuscolo, presenze magiche come nelle fiabe beduine
di Manuela Valsecchi — 19 Maggio 2021
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Tour operator statunitensi ed europei offrono “pacchetti” con “destinazione Israele” promuovendo informazioni distorte sulle mete e omettendo la realtà e gli impatti dell’occupazione. Il settore ha un enorme rilievo economico e i benefici non interessano le comunità palestinesi locali. La denuncia del report di Glan e SOMO e l’alternativa del turismo responsabile.
In Palestina la violazione dei diritti umani passa anche attraverso il turismo. A chiarirlo è il dettagliato rapporto “Tainted tourism”, turismo corrotto, pubblicato nel marzo 2021 dalla Ong britannica Global legal action network (Glan) e dal centro di ricerca olandese sulle multinazionali SOMO. Lo studio ha preso in esame cento tour operator statunitensi ed europei che offrono “pacchetti” con “destinazione Israele”, potendo constatare come questi da un lato contribuiscano e dall’altro beneficino degli abusi dei diritti umani e delle violazioni del diritto internazionale che si consumano nei Territori palestinesi occupati.
La stragrande maggioranza delle proposte turistiche esaminate porta infatti i visitatori oltre i confini internazionalmente riconosciuti di Israele, includendo importanti luoghi storici, religiosi o naturalistici dei Territori occupati, come ad esempio la città vecchia di Gerusalemme e Betlemme. Commercializzando i loro prodotti, questi soggetti rafforzano e legittimano gli insediamenti illegali di Israele in terre che secondo il diritto internazionale dovrebbero essere utilizzate dalla potenza occupante solo per questioni di sicurezza e non certo per essere sfruttate a scopi economici. Così sostengono indirettamente anche la politica di Israele nei territori che, secondo un rapporto di Amnesty international del 2019, è la principale causa delle violazioni del diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza della persona, alla parità di trattamento davanti alla legge, alla libertà di espressione, di riunione pacifica, all’uguaglianza, alla non discriminazione, a un alloggio adeguato, alla libertà di movimento, al godimento del più alto standard raggiungibile di salute fisica e mentale, all’acqua, all’istruzione, a una vita dignitosa subite dai palestinesi.
“Le ragioni per cui il turismo funziona in questo modo è perché Israele lo governa e il controllo delle istituzioni gioca un ruolo centrale -spiega Serena Baldini, operatrice della Ong italiana Vento di terra che in Palestina promuove progetti di cooperazione internazionale e viaggi di turismo responsabile-. Si cerca di far passare l’idea che la questione arabo-israeliana sia religiosa e culturale, ma non è così: il conflitto è per la terra e per le risorse. I palestinesi non vi hanno accesso e il turismo riflette questa condizione: i tour operator israeliani portano i visitatori in ‘Area C’ -che in base agli accordi di Oslo è controllata dall’autorità militare e civile israeliana- in luoghi dove i palestinesi che ci vivono non possono costruire, utilizzare la terra per l’agricoltura, avviare qualsiasi attività economica, e dove appunto crescono a vista d’occhio gli insediamenti illegali israeliani”.
I flussi in arrivo in Israele e negli insediamenti tramite pacchetti turistici rappresentano un terzo del totale: nel 2019 sono stati registrati ingressi per 4,55 milioni di persone, spesso interessate a luoghi che si trovano in zone occupate. Secondo un’indagine del ministero del Turismo israeliano del 2014 quasi il 40% dei siti turistici frequentati dai visitatori internazionali si trovava proprio nei Territori occupati. La maggior parte dei tour sono condotti da imprese israeliane senza il coordinamento o il consenso delle autorità palestinesi competenti, emerge ancora dal report di Glan e SOMO. Inoltre, i siti nei Territori occupati sono spesso gestiti da enti governativi israeliani come l’Autorità israeliana per la natura e i parchi e quella per le antichità, che sono legati all’economia degli insediamenti e non forniscono alcun beneficio alle comunità palestinesi -che hanno peraltro accesso limitato a questi siti-.
I promotori principali dei viaggi “all inclusive” sono le compagnie turistiche israeliane e internazionali che confezionano, commercializzano e gestiscono i viaggi sul posto. Il report di SOMO e Glan ha analizzato nel dettaglio l’offerta di nove compagnie statunitensi ed europee, scelte in base alle loro dimensioni, al fatturato, al numero di viaggi programmati in Israele che includono località negli insediamenti. Si tratta delle britanniche Audley, Explore e Kensington Tours, la statunitense Globus, l’olendese Goed Idee Reizen, la francese Promoséjours, la tedesca Tui Group, la spagnola Viajes catai e Insight vacations, una piattaforma di vacanze online che ha sede legale nelle Isole Vergini. Le loro offerte hanno una caratteristica comune: nessuno degli opuscoli pubblicitari fornisce informazioni complete e accurate sulla destinazione e sui luoghi dell’itinerario. Sei delle nove brochure non indicano che si viaggerà al di fuori di Israele e nei territori che lo stesso occupa militarmente e le informazioni omettono o travisano l’ubicazione dei siti che si trovano nei Territori, lasciando intendere che siano all’interno di Israele. Laddove viene citata la Palestina si dà l’impressione errata ai “consumatori” di lasciare Israele solo quando entrano nella città di Betlemme, come se gli altri luoghi visitati fossero in Israele.
La maggior parte delle nove compagnie propone nei pacchetti la visita al Parco nazionale di Qumran, uno dei siti archeologici più significativi dei Territori occupati a un chilometro dal Mar Morto e a venti da Gerico. Nel 2011, l’ultima volta che sono stati resi pubblici i dati, ha registrato 373.826 accessi generando un fatturato di 2,05 milioni di dollari dai soli biglietti di ingresso. Il terreno destinato all’amministrazione del Parco e al posteggio degli autobus turistici, una volta era utilizzato dalle comunità beduine palestinesi per il pascolo e l’agricoltura. Dall’inizio dell’occupazione israeliana le comunità beduine della Valle del Giordano sono state gradualmente costrette ad andarsene attraverso rigide restrizioni nell’accesso alla terra, all’acqua e all’elettricità, nonché ad altre infrastrutture e servizi di base. Intanto i coloni hanno preso il controllo esclusivo di gran parte dei 160mila ettari dell’area settentrionale del Mar Morto, che ammonta al 28,8% della Cisgiordania.
Anche il Parco nazionale di Erode è meta battuta dai tour. Inaugurato nel 1985, si trova a Sud-Est di Betlemme ed è un palazzo-fortezza che sarebbe stato costruito dal re Erode nel I secolo a.C.. Nel 2011 ha contato 86.375 visitatori guadagnando dagli ingressi 470mila dollari. Il sito archeologico occupa 46,7 ettari, ma l’area complessiva del terreno destinato al parco si estende per oltre 100. Questo luogo ha avuto un ruolo molto importante nel promuovere le rivendicazioni dei coloni, usando l’archeologia come strumento per espellere i palestinesi dalla loro terra e legittimare l’insediamento. Ci sono cinque villaggi palestinesi adiacenti al sito e la maggior parte delle persone che ci vive possiede terreni nell’area più ampia del sito e negli insediamenti adiacenti. Molti di questi proprietari terrieri non possono più coltivare o ristrutturare le proprie case senza l’approvazione delle autorità israeliane.
Qasr al-Yahud, a Est di Gerico, si dice che sia il luogo dove Gesù sarebbe stato battezzato. Aperto ai visitatori nel 2011, è amministrato dall’Autorità israeliana per i parchi e la natura ed è incluso nei tour storici e religiosi condotti da operatori turistici israeliani. L’istituzione del sito è stata resa possibile dal controllo esclusivo di Israele sulla zona lungo il confine giordano con i Territori occupati e dalla chiusura dell’area nel 1967 per uso militare. Ciò ha comportato la confisca di circa 17mila ettari, di cui 5mila di terra privata palestinese. Nel 2013 860 ettari di questa terra erano coltivati da 11mila coloni presenti nei 39 insediamenti israeliani nella Valle del Giordano e che controllano l’accesso alla terra e alle risorse naturali dei circa 65mila palestinesi che vivono nella stessa area.
Questi sono luoghi che Vento di terra evita nei suoi viaggi: “Il parco di Qumran o le coste del mar Morto si trovano in ‘Area C’ e sono aree turistiche gestite unicamente da enti o da operatori turistici israeliani -continua Baldini-. In generale nei nostri viaggi non includiamo questo genere di posti per non generare economia dove questo significherebbe contribuire a un convalidato sistema di violazione dei diritti. Sostenendo un’attività turistica in ‘Area C’ ci sembrerebbe di avvallare l’occupazione”.
Un modello alternativo è possibile: “È una lotta contro i mulini a vento -ammette Baldini- ma si possono portare i viaggiatori a vedere come si vive nei Territori occupati, supportando l’economia delle comunità palestinesi e di chi rimane necessariamente fuori dai tour generalisti come ad esempio le comunità beduine. È una grande sfida ed è una proposta di nicchia, ma il tema è così delicato e complesso, che il fatto di farlo promuovendo un incontro con le persone che abitano questi luoghi ha un suo significato”.
Uno degli aspetti evidenziati nel rapporto “Tainted tourism” è proprio quello della disinformazione fatta attraverso la vendita dei pacchetti turistici: messaggi imprecisi sulla destinazione e sulle caratteristiche del viaggio possono impedire a un “consumatore” di prendere in considerazione gli effetti dannosi che questo ha sui diritti umani. I turisti dovrebbero sapere che, pur viaggiando fuori da Israele, il loro tour è gestito esclusivamente da un agente israeliano e non contribuisce al benessere delle comunità palestinesi locali. “In generale il turismo di massa costituisce un’occasione persa e rischia di generare disinformazione e mancanza di conoscenza di chi vive sul territorio, creando una rappresentazione falsata -continua Baldini-. Il turismo responsabile in questo senso è una risorsa enorme di conoscenza. In Palestina il turismo è un’arma potenzialmente normalizzante laddove c’è invece una grande esigenza di denuncia. Pensiamo all’occupazione feroce di Gerusalemme, visitando la città in maniera superficiale si può pensare che israeliani e palestinesi convivano tranquillamente senza cogliere che una bandiera israeliana issata sul tetto in un certo quartiere può avere un significato importante. Perdere la complessità e la sovrapposizione di tanti livelli è rischioso, a Gerusalemme e nel resto della Palestina: i turisti sono in una terra occupata e non lo sanno”.
Il turismo “di massa” nei Territori occupati è ampiamente supportato dal governo di Israele che fornisce aiuti finanziari, infrastrutturali e amministrativi agli insediamenti per attrarre visitatori internazionali. È inoltre promotore di campagne di marketinginternazionale con promozioni che includono numerosi siti nei Territori occupati e negli insediamenti. Il ministero del Turismo si fa garante attraverso un “sigillo di approvazione” dei materiali pubblicitari che vengono utilizzati dalle compagnie straniere per i propri pacchetti. Ma Tel Aviv agevola gli operatori israeliani anche attraverso le proprie politiche nei confronti dei palestinesi: il settore turistico palestinese è ricco di potenziale e secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad) rappresenta il 4% della forza lavoro occupata in Cisgiordania, ma è sottosviluppato a causa dell’occupazione militare e delle relative restrizioni economiche.
L’impossibilità per i palestinesi di sfruttare la riva settentrionale del Mar Morto genera una perdita che può essere paragonata ai 290 milioni di dollari di entrate ottenute da Israele; lo stesso vale per le imprese palestinesi a Betlemme e Gerico che lavorano al di sotto del proprio potenziale per via delle limitazioni. Israele ha continuato a negare sia all’Autorità palestinese sia alle imprese private palestinesi lo sviluppo di siti turistici e archeologici in oltre il 60% della Cisgiordania, imponendo anche vincoli al movimento delle guide turistiche e degli operatori palestinesi che ostacolano ad esempio la loro capacità di portare i visitatori a Gerusalemme Est o di incontrare gruppi all’aeroporto “d’ingresso” Ben Gurion a Tel Aviv. Lo stesso vale per quei soggetti, come Vento di terra, che promuovono un turismo alternativo: “Prima di partire dobbiamo fare un grande lavoro con i nostri viaggiatori anche per affrontare le procedure di ingresso e di uscita in aeroporto. Ad esempio, il racconto di una visita a Hebron o di un incontro con i palestinesi verrebbe ritenuto un fattore di pericolo e potrebbe comportare il rischio di rimanere bloccati in aeroporto. Le autorità israeliane nel complesso quindi ci ostacolano, perché non siamo percepiti come attività turistica ma come attivisti da tenere d’occhio. Ci sono limiti di questo tipo, dettati dal fatto che la sicurezza è per Israele un’ossessione e che chiunque abbia contatti con i palestinesi o interesse per la Palestina diviene automaticamente pericoloso per la sicurezza di Israele”.
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Tratto dal blog di Piero Maderna “Questa è la nostra terra”
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Usciamo dalla Porta dei Leoni e percorriamo un tratto della Via Dolorosa, lungo la quale si trovano tutte le stazioni della Via Crucis. Passiamo davanti al luogo di nascita della Vergine Maria, poi al posto in cui Gesù dovrebbe essere stato flagellato prima di salire al Calvario. I negozi di souvenir, tutti gestiti da palestinesi, vendono paccottiglia di ogni genere, tra cui delle fantastiche corone di spine.
Intorno ad alcune porte le pareti sono dipinte di bianco punteggiato di rosso, verde e nero: sono le case di chi ha fatto l’haji, il pellegrinaggio alla Mecca.
Qui siamo sempre a Gerusalemme Est, teoricamente zona palestinese, anche se la città vecchia è un po’ un mondo a parte. Molte case sono state occupate negli anni da coloni israeliani, sempre col concetto di segnare il territorio con la loro presenza. Coloni che poi sono costretti a vivere asserragliati con le loro famiglie. Vediamo un papà che accompagna i bambini a scuola, seguito da un uomo che è chiaramente una guardia del corpo.
[…]
Ripartiamo per Gerusalemme, dove saliremo sul Monte degli Ulivi per guardare la città dall’alto e vedere come il muro la taglia in due, anche qui ben lontano da quello che dovrebbe essere il confine Est-Ovest sancito dal diritto internazionale.
Dando per assodato che la situazione di Gerusalemme Est era già critica, con 4 milioni di palestinesi praticamente impossibilitati ad entrarvi senza permessi difficilissimi da ottenere e con anche i residenti privi di uno status sicuro (dal 1967 è stata revocata la residenza a 14.000 palestinesi), con il muro le cose sono ulteriormente peggiorate. Ora decine di migliaia di palestinesi residenti a Gerusalemme Est sono fisicamente separati dal centro urbano dal muro e devono attraversare affollati checkpoint per accedere alle cure sanitarie, all’istruzione e ad altri servizi a cui avrebbero diritto in qualità di residenti.
Con tutto questo, è comunque impossibile, sul Monte degli Ulivi, non farsi trasportare dalla magia della vista della cupola dorata che sovrasta le mura della spianata e il cimitero ebraico.
Guardando questo spettacolo incredibile anche se deturpato, però, ci siamo chiesti: Qual è davvero il muro del pianto? È quello del Tempio di Erode distrutto dai romani quasi duemila anni fa o è quello che, oggi, ferisce in profondità questa terra tormentata? Sono grato a Patrizia per questa considerazione, che ho inserito anche nel “sottotitolo” di questo racconto.
Durante questo viaggio, ho sentito il peso di essere qui a guardare e di non poter far nulla per cambiare le cose. Ho dovuto combattere contro questa sensazione di impotenza, finché ho capito che essere qui era già fare qualcosa per cambiare le cose; l’ho letto negli occhi dei bambini, l’ho sentito nelle parole di Issa, di Rabbi Jeremy e di Hassan. E soprattutto ho capito che i progetti di Vento di Terra ogni giorno cambiano le cose: ogni bambino in più che va a scuola può fare tutta la differenza del mondo. Lo abbiamo visto anche a Battir, se c’è una speranza viene dalla cultura. Del resto quello palestinese è un popolo giovanissimo: metà dei palestinesi sono nati dopo gli accordi di Oslo del 1994. Un popolo così giovane, non può e non deve non avere speranza nel futuro. L’istruzione è davvero il fattore decisivo.
Tratto dal blog di Piero Maderna “Questa è la nostra terra”
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Il 25 febbraio 1994 è una data che ha segnato profondamente la storia recente di Hebron. Baruch Goldstein, un membro d’origine statunitense della Lega di Difesa Ebraica, residente a Kiryat Arba, medico ed ex ufficiale dell’esercito, penetrò nella moschea di Abramo in uniforme, evitando quindi i superficiali controlli militari predisposti, e trucidò a colpi di fucile mitragliatore 29 musulmani in preghiera, causando l’esasperata reazione dei sopravvissuti, che linciarono l’attentatore, e della popolazione palestinese. Dopo il massacro, la città nel 1997 venne divisa in due settori: Hebron 2 (circa il 20% della città), sotto controllo israeliano, e Hebron 1, affidata al controllo dell’Autorità Palestinese, in accordo con il cosiddetto Protocollo di Hebron.
Ad oggi, i palestinesi sono sottoposti ad uno stretto regime di permessi e controlli per accedere a servizi e abitazioni rimaste nella zona sotto controllo israeliano. Per proteggere qualche centinaio di coloni, è stato messo in piedi un sistema che rende la vita quasi impossibile a tutto il resto della popolazione (…)
Shuhada Street, la via dei martiri, che per gli israeliani è King David Street, è oggi in gran parte una strada fantasma, come anche molte altre parti della città vecchia nel settore H2. Niente più negozi, o mercati. 1000 appartamenti vuoti e abbandonati. 1800 negozi chiusi. 100 barriere mobili che chiudono le strade e 23 checkpoint. Diverse strade sono vietate alla popolazione palestinese.
Per arrivare alla moschea di Abramo, proprio quella del massacro, dobbiamo passare un altro checkpoint (…). Da allora la moschea, come la città, è anch’essa divisa in due settori da un muro interno: per metà è adibita a moschea, per metà a sinagoga. Da entrambi i lati ci si può affacciare sulla grotta dove si dice si trovino le tombe dei patriarchi, ma gli accessi sono separati. Se anche volessimo entrare dal lato della sinagoga, oggi non potremmo farlo perché è Shabbat. Issa ha dovuto fare un altro giro per arrivare fin qui all’entrata della moschea, perché lui essendo palestinese in Shuhada Street non può camminare e naturalmente non può entrare nella sinagoga.
Entriamo nella moschea (…). Sostiamo per un po’ nella sala della preghiera. Della grotta dove dovrebbero trovarsi le tombe, non si vede molto. Bisogna più che altro immaginare, farsi trasportare dalla potenza dei simboli. Difficile però non pensare che il simbolo più forte è proprio quella parete divisoria, dall’aspetto anche piuttosto brutto, che taglia in due la moschea-sinagoga.
Tratto dal blog di Piero Maderna “Questa è la nostra terra”
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La Palestina. Da quant’è che non ne sentivate parlare? Dite la verità. Quando raccontavo a qualcuno di questo viaggio che stavo per fare, mi son sentito più volte dire: “Ma in che senso vai in Palestina? Ma esiste la Palestina?”. “Bella domanda” – Rispondevo io. Dovrebbe esistere, almeno come entità realmente autonoma se non come stato indipendente. Ci sono fior di accordi internazionali in tal senso, ampiamente disattesi. Ma no, in effetti forse di fatto non esiste. Anche a livello mediatico.
Da cinquant’anni è una ferita aperta nel cuore del Medio Oriente, ma negli ultimi anni, salvo rare eccezioni, nei mezzi d’informazione è scesa una pesante coltre di silenzio. Non fa comodo parlarne, non fa vendere i giornali (ammesso che se ne vendano ancora in generale), non fa ascolti in TV, non cattura contatti in rete. È una situazione troppo complicata, chi ci capisce più niente? Non si presta ad essere spiegata in poche battute. E poi divide. Se prendi una posizione troppo netta, sicuramente ti inimichi qualcuno. Se sei troppo filopalestinese, l’accusa di antisemitismo è sempre lì pronta. E se invece sei troppo filoisraeliano, o sei islamofobo o sei un sionista servo degli USA e del sistema capitalista. A non parlarne, si campa molto meglio.
E allora sapete cosa? Ho deciso di cogliere l’occasione, un’occasione che aspettavo da un po’ di anni, per andare a vedere di persona. Sapevo già che sarei stato male, che non mi sarebbe piaciuto quello che avrei visto. Sono convinto che è così per tutti noi che facciamo parte della comunità degli ascoltatori/viaggiatori di Radio Popolare; ormai ne conosco tanti, e so che siamo fatti così. Facciamo fatica a digerire le ingiustizie. Però questa è una cosa che andava fatta. È un piccolo gesto, da solo non cambierà certo le cose. Ma tutto serve a rompere il muro dell’isolamento, a far sentire a chi è lì, ancora sotto occupazione, che non tutti in Europa hanno scelto di dimenticare. Noi saremo pochi ma ci siamo. Spero che possa servire davvero. E vedrete che, nonostante tutto, abbiamo scoperto tante piccole oasi di speranza.
Tratto dal blog di Piero Maderna “Questa è la nostra terra”
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Le aree A sono quelle sotto totale controllo, con tutti i limiti che questo comunque comporta, dell’Autorità Nazionale Palestinese. Le aree B sono quelle dove l’ANP ha il controllo amministrativo, ma la sicurezza e l’ordine pubblico sono di competenza israeliana. Le aree C, invece, sono quelle sotto completo controllo israeliano amministrativo e militare. Dove, per dirne una, i palestinesi non possono costruire nulla se non chiedendo il permesso delle autorità militari israeliane. Il che, tradotto, significa che semplicemente non possono costruire nulla, mentre proliferano le colonie israeliane. Oggi, il 60% della Cisgiordania è area C. Per questo Suad Amiry diceva che i palestinesi controllano solo il 40% del 22%, si riferiva alle aree A e B.
Tutto questo è stato deciso con gli accordi di Oslo e, ancora oggi, molti rimproverano ai leader palestinesi di allora di aver sottoscritto questo tipo di suddivisione della Cisgiordania. Ma allora si pensava che sarebbe stata una situazione provvisoria, doveva durare solo per cinque anni e poi, gradualmente, le aree C sarebbero dovute diventare B, e poi A, e passare sotto il controllo palestinese. Dura invece da ventitré anni, nei quali le aree C sono rimaste pari a oltre il 60%.
In Cisgiordania oggi, con 3 milioni di abitanti palestinesi, vivono più di 600.000 coloni israeliani, di cui 200.000 a Gerusalemme Est. Tra le aree A e B, sotto controllo palestinese, non vi è di fatto continuità territoriale. Sono 200 isole immerse nel mare dell’area C, che rappresenta appunto oltre il 60% del territorio. E in area C vivono circa 300.000 palestinesi (il 10% del totale di abitanti palestinesi della Cisgiordania, mentre un altro 10% vive a Gerusalemme Est). Di questa situazione soffrono in particolare le comunità beduine, che si trovano tutte in area C. Esiste un piano israeliano di ricollocamento (leggasi spostamento forzato) di 46 comunità beduine in tre aree specificamente individuate. Questo con la promessa di una vita migliore, anche con qualche compensazione economica, ma perdendo completamente la loro identità sociale e culturale che è legata alle greggi e alla possibilità di vivere un territorio non urbanizzato. E con i problemi che derivano dal mettere insieme forzatamente nuclei tribali diversi il cui equilibrio funziona solo se vivono separati. In totale, le persone appartenenti alle comunità beduine considerate a rischio di trasferimento forzato sono circa 30.000.
Tratto dal blog di Piero Maderna “Questa è la nostra terra”
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Io continuo, e continuerò, a chiamarlo muro, e non barriera. Anche su questo c’è una disputa lessicale, tra palestinesi e israeliani. Ma le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti, e questo è un muro. È bene chiamarlo col suo nome.
Questa è una zona dove gli effetti devastanti del muro si possono vedere bene. Ad esempio, se tu sei un contadino e abiti al di qua del muro, ma il tuo campo è al di là, non puoi più coltivarlo, di fatto. O devi fare un lungo giro per passare dal checkpoint, ammesso che oggi si possa passare. Se no riprovi domani, no? Con un po’ di pazienza e di fortuna ce la farai. Qualche ora di attesa magari, ma che vuoi che sia? E se il pozzo è dall’altra parte, vuol dire che non potrai prendere l’acqua.
Be’, sembra che questo non a tutti piaccia. Chiaramente il muro, al di là del suo effetto concreto, ha un valore simbolico forte. È per questo che spesso qui, come in molti altri tratti, si scatenano proteste, vengono lanciate pietre o bruciate gomme, come si vede dalle tante zone di muro annerite dalle fiamme.
tratto da S. Apuzzo, S. Baldini, B. Archetti, Lettere al di là del Muro. Dai bambini palestinesi dei campi profughi, 2008 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
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Per i palestinesi il 1948 fu l’anno della Nakba, la catastrofe. Per permettere la costituzione dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, circa 750.000 palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case e oltre 418 dei loro villaggi furono distrutti. Il processo di immigrazione ebraica in Palestina era iniziato a fine ‘800 in seguito alle persecuzioni anti-ebraiche in Europa, quando la Palestina si trovava ancora sotto il controllo dell’Impero ottomano. Dopo il passaggio sotto il mandato britannico, avvenuto nel 1918, il processo di immigrazione ebraica continuò con il sostegno delle autorità britanniche e delle organizzazioni sioniste, il cui scopo era già quello di costituire uno Stato ebraico in Palestina. Con l’avvento del Nazismo in Europa e l’inizio dell’Olocausto molti ebrei trovarono rifugio in Palestina. Il processo di immigrazione si intensificò, tanto che nel 1939 la popolazione ebraica nell’area costituiva il 28% del totale. Di fronte all’arrivo di centinaia di migliaia di ebrei (350.000 tra il 1932 e il 1948), che dal 1929 aveva comportato per molti palestinesi l’espulsione dai loro villaggi, un generale movimento di protesta si diffuse rapidamente tra la popolazione, per chiedere alle autorità britanniche l’indipendenza e la fine dell’immigrazione ebraica. La risposta fu la repressione: arresti di massa, requisizioni, demolizione di migliaia di case. All’inizio del 1947, la Gran Bretagna, in procinto di lasciare la Palestina, sottopose la delicata questione del futuro dell’area alle Nazioni Unite. Si affermò la proposta di partizione che prevedeva la creazione di uno Stato ebraico sul 56,5% del territorio della Palestina e di uno stato arabo sul restante 42,6%, prevedendo una zona sotto il controllo internazionale nell’area di Gerusalemme. La proposta, approvata dalle Nazioni Unite, dando concretezza al sogno sionista di uno stato ebraico, scatenò un aspro conflitto che oppose il nascente Stato d’Israele ai Paesi arabi confinanti. Il movimento sionista attuò una politica di terrore verso i palestinesi, eseguendo massacri contro la popolazione civile e cacciando i palestinesi dai loro villaggi. Iniziava la Nakba. (…) Le chiavi delle case occupate o distrutte nel 1948, che tuttora molte famiglie conservano, sono un simbolo di quella tragedia.
Una grande chiave di metallo, la più grande del mondo secondo i profughi che oggi vivono nel campo profughi di Aida, sovrasta la sua porta di entrata. Secondo le storie tramandate di generazione in generazione, il campo prenderebbe il nome da quello di una donna, Aida, che ancora oggi viene ricordata, perché si distinse nell’accoglienza dei profughi della Nakba offrendo loro cibo, acqua, coperte e generi di prima necessità. Oggi la vista del campo da uno dei tetti degli edifici prossimi alla sua entrata è impressionante: le case piccole, ammassate le une sulle altre e cresciute irregolarmente nel tempo, mangiando spazio alle strade che sono diventate stretti vicoli; il Muro a ridosso delle case del campo, oltre il quale si estendono ampie colline piene di alberi di ulivo, ormai irraggiungibili per gli abitanti del campo; la grande porta scorrevole di metallo poco distante, oltre la quale si scorgono i mezzi militari israeliani che di frequente fanno incursione; i volti e le scritte sui muri, a triste memoria dei tanti giovani uccisi.
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Viaggiando in Palestina è impossibile non assaggiare la maqlouba, un piatto tradizionale a base di riso, pollo e verdure che è una delizia non solo per il palato, ma anche per gli occhi. Per servire il piatto infatti si assiste a un rituale, la pentola di cottura viene con destrezza e rapidità rovesciata su un grande vassoio, spesso con applauso al seguito. Se volete cimentarvi nella preparazione, vi proponiamo di seguito quella che ci pare una buona mediazione tra tutte le ricette ricevute e provate sinora. Le dosi sono per una tavolata numerosa, in pieno stile palestinese.
Ingredienti
1 kg di riso, 3 polli tagliati a pezzi, 3 melanzane, 1 cavolfiore, 3 pomodori, 3 cipolle, misto di spezie per maqlouba (curcuma, pepe, alloro, noce moscata, cannella, zafferano, peperoncino, origano, cardamomo, chiodi di garofano, paprika), 1 testa d’aglio, olio extravergine d’oliva, olio di semi, sale.
Procedimento
Sciacquate il riso in acqua fredda, mettetelo in ammollo per circa un’ora, poi risciacquatelo. Tagliatele le melanzane a fette, disponetele su una teglia, cospargetele di sale, e lasciatele spurgare. Dopo un’ora sono pronte, riempite una grande padella di olio di semi e friggete le melanzane. Disponete il pollo in una teglia con l’olio di oliva e le spezie, lasciate marinare per un’ora, poi infornate a 200° per circa un’ora. In una pentola sistemate i pezzi di pollo, aggiungete le melanzane e i pomodori in modo da rivestire bene la base della pentola. Poi unite il riso, ben sciacquato e colato. Aggiungete il sugo della cottura del pollo e dell’acqua calda fino a coprire tutto il contenuto della pentola (attenzione a non metterne troppo, basterà che il liquido arrivi al limite del riso). Cuocete a fuoco alto fino ad ebollizione, poi riducete la fiamma al minimo e coprite con un coperchio. Per una buona cottura è importante che il coperchio sia ben aderente alla pentola. Questo piatto deve cuocere completamente al chiuso e a fuoco bassissimo per circa 20 minuti, poi sollevate il coperchio per controllare che l’acqua si sia asciugata e che il riso sia cotto. In caso contrario tenente la pentola sul fuoco ancora qualche minuto. Quando il riso è cotto, togliete la pentola dal fuoco e, sempre con il coperchio, fate riposare il contenuto per circa 10 minuti. Siamo così arrivati al momento del rovesciamento. Appoggiate un vassoio o un piatto di portata molto largo al bordo della pentola e rigiratela, capovolgendo con rapidità e destrezza. Date qualche colpetto con un mestolo di legno sopra e ai lati, in modo che il riso si stacchi bene, poi sollevate la pentola e la vostra maqlouba è pronta. Potete decorare con prezzemolo tritato e mandorle a lamelle, dorate prima in padella. Servite accompagnata da yogurt bianco e una fresca insalata araba, pomodori e cetrioli a cubetti conditi con limone, menta e olio di oliva.
Tratto dal blog di Piero Maderna “Questa è la nostra terra”
(tempo di lettura circa 3 minuti)
La storia ce la racconta Hassan, un ingegnere civile che conosce ogni pietra del suo villaggio e che è stato l’uomo chiave del percorso con il quale Battir ha ottenuto il titolo di Patrimonio dell’Umanità UNESCO. E io sono incaricato di tradurre. Tra ingegneri dovremmo riuscire a capirci, butto lì come battuta. Ed effettivamente non è difficile, Hassan parla un ottimo inglese, con accento arabo ovviamente ma neanche troppo pesante.
Il paesaggio delle colline di Battir comprende una serie di valli terrazzate, chiamate widyan, alcune delle quali sono abbondantemente irrigate per la produzione di ortaggi e la floricoltura, mentre altre sono più secche e coltivate a viti e ulivi.
Senza contare le ricchezze archeologiche. Qui, ci racconta Hassan, gli israeliani sono venuti a scavare, nella speranza di trovare i resti del villaggio protagonista della rivolta ebraica contro i romani, ma sfortunatamente per loro hanno trovato resti cananei, romani, islamici, ottomani… di tutti i periodi ma non ebraici. Perciò se ne sono andati.
Mentre passeggiamo tra le antiche sorgenti e ammiriamo il paesaggio di Battir, Hassan prosegue il racconto. A quel punto a Battir avrebbero potuto proseguire con gli scavi e cercare di valorizzare il patrimonio archeologico, ma, a parte i costi, essendo in area C avrebbero avuto bisogno di permessi anche per fare le opere necessarie a fruire di questo patrimonio e a conservarlo, permessi che non avrebbero mai ottenuto.
Così, nel 2009, nacque l’idea di chiedere la qualifica di patrimonio UNESCO per il paesaggio, che si può conservare anche senza bisogno di permessi.
Nell’estate 2014, finalmente, il tutto andò a buon fine e a Battir venne accordata la qualifica di Patrimonio dell’Umanità per le sue terrazze, il suo sistema di irrigazione e il suo paesaggio culturale.
Alla Corte Suprema, i rappresentanti di Battir poterono portare sia il premio Melina Mercouri che l’acquisizione del titolo di Patrimonio UNESCO e così, nel gennaio 2015, la corte respinse la richiesta delle autorità militari israeliane di costruire il muro tagliando in due il villaggio, separandolo dalle sue terre.
Ora il paesaggio di Battir è protetto dalla legge palestinese ed è stato creato un Ecomuseo per garantirne la protezione e la gestione, in accordo e in collaborazione con la comunità locale.
Finalmente una bella storia, una storia dove l’ingegno, la passione e la determinazione di poche persone di una piccola comunità hanno portato a una vittoria eccezionale. A diventare Patrimonio UNESCO e a impedire la costruzione del muro. E tutto questo è stato ottenuto con la forza della cultura, senza far ricorso alla violenza. Hassan ci ha raccontato che, quando si discuteva di cosa fare, nella comunità hanno ragionato, hanno guardato gli esempi che avevano davanti. Tutti quelli che avevano tentato di opporsi al muro con proteste violente avevano perso, alla fine. Il muro era stato costruito comunque e le comunità avevano anche dovuto contare morti e feriti. Loro hanno scelto una strada diversa, e hanno vinto. È un esempio veramente importante, che speriamo possa fare scuola. Sarebbe un’illusione pensare che possa funzionare dappertutto, ma abbiamo visto una tale quantità di brutture e ingiustizie, in questi giorni, che una boccata dell’aria fresca di Battir ci voleva proprio.
Un’altra breve passeggiata ed è ora di cena. Siamo ospiti, qui a Battir, di Hassan e dei suoi amici e compaesani impegnati nella valorizzazione del villaggio. È pronta una bella tavolata all’aperto, dove possiamo rifocillarci abbondantemente alla fine di un’altra giornata abbastanza lunga.
Lasciamo Battir stanchi ma felici, con la bellezza negli occhi e un po’ più di speranza nel cuore.
Tratto dal blog di Piero Maderna “Questa è la nostra terra”
(tempo di lettura circa 1 minuto)
I checkpoint per passare dalle zone palestinesi a quelle sotto controllo israeliano e viceversa sono diventati ormai un’abitudine, per noi. A volte un soldato sale sul pullmino e chiede i passaporti, tutti o solo qualcuno, non si capisce in base a quale criterio; altre volte invece va liscia. Quelli che stanno ai checkpoint sono tutti soldati molto giovani, 18-19 anni. Non deve essere facile neanche per loro.
Oggi, qui a Hebron, troveremo la situazione forse più pesante da questo punto di vista: ci sono checkpoint molto “duri” nel pieno centro della città vecchia, che è divisa in due. Tutta la città, che ha circa 200.000 abitanti, è divisa tra la zona denominata H1, che è sotto controllo palestinese, e la zona H2, che è sotto stretto controllo militare israeliano perché ci vivono i coloni più estremisti di tutti i territori occupati, protetti da battaglioni di soldati appostati sui tetti. Dovremo attraversare questi checkpoint a piedi.
Ma prima di entrare nella città vecchia, incontriamo Giulia e ci facciamo spiegare un po’ meglio da lei, mentre sorseggiamo un succo di tamarindo che abbiamo comprato da un venditore ambulante che lo spaccia spillandolo da una botticella metallica di quelle che di solito vengono utilizzate per il tè o per il caffè.
Il nome della città, sia in ebraico (Hebron) che in arabo (al-Khalīl), significa letteralmente “amico”; è riferito al patriarca Abramo, ma suona veramente stridente rispetto a quello che è oggi questa città.
Passiamo attraverso i tornelli del checkpoint e il metal detector, passaporti alla mano e non senza una certa tensione che aleggia nell’aria. Forse ingiustificata, perché noi non rischiamo niente. Ma comunque, come si fa a non sentire anche sulla propria pelle il peso della cappa di odio e incomunicabilità che pervade questo posto?
tratto da S. Apuzzo, S. Baldini, B. Archetti, Lettere al di là del Muro. Dai bambini palestinesi dei campi profughi, 2008 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
(tempo di lettura circa 2 minuti)
Dal 1967 i Territori Occupati Palestinesi sono un mercato supplementare per Israele. I palestinesi si vedono costretti a lavorare per salari bassissimi per padroni israeliani, facendo i pendolari tra i Territori occupati e Israele (…). Le risorse della Cisgiordania vengono ampiamente sfruttate da Israele e sottratte alla popolazione palestinese (l’80% dell’acqua viene ad esempio dirottata sugli insediamenti e le città israeliane). Le colonie continuano a crescere come funghi, nel 1987 sono 139 con 60.000 abitanti, ed aumentano di conseguenza le violenze quotidiane contro i civili palestinesi da parte dei coloni armati. A vent’anni dall’occupazione del 1967, un incidente stradale avvenuto a Gaza fa scoppiare la rivolta palestinese: nello scontro tra un camion guidato da un colono israeliano e un’auto su cui viaggiano alcuni pendolari del campo profughi di Jabaliya, quattro di questi muoiono. E’ la scintilla che dà fuoco alle polveri di una situazione al limite. Scoppia la prima Intifada. Nel dicembre del 1987, la gente della Cisgiordania e di Gaza decise di “scrollarsi di dosso” l’occupazione, dando vita ad una rivolta di massa non armata, la rivolta di un popolo che a mani nude affrontava uno degli eserciti più potenti del mondo. Per questo ottenne grande solidarietà internazionale e il lancio delle pietre contro i soldati ne divenne il simbolo. La rivolta prese il nome di Intifada delle pietre. Tutta la popolazione partecipò a scioperi, barricate, boicottaggi organizzati dei prodotti israeliani. La repressione arrivò durissima: centinaia di uccisioni e ferimenti, decine di migliaia di arresti, centinaia di case demolite, alberi sradicati, deportazioni, coprifuoco e chiusure dei territori. (…) I bambini che hanno scritto le lettere raccolte in questo libro avevano pochi anni quando nel settembre del 2000 scoppiò una nuova Intifada: l’Intifada Al Aqsa, dal nome della moschea più grande di Gerusalemme, dove Ariel Sharon, allora leader del partito di destra, Likud, si recò per una “camminata” scortato da centinaia di poliziotti. L’atto di grande valore simbolico risultò una provocazione gravissima per i palestinesi, in una situazione in cui permanevano molti dei fattori che avevano scatenato la precedente Intifada: le colonie in continua espansione, le risorse della Cisgiordania ancora ampiamente sfruttate da Israele a svantaggio della popolazione palestinese. In più erano anni in cui, dopo il fallimento degli accordi di Oslo, i negoziati di pace non facevano passi avanti. La risposta israeliana alla rivolta palestinese non si fece attendere. Addirittura le città e le aree amministrate dall’Autorità Nazionale Palestinese vennero rioccupate dall’esercito israeliano e così rimasero per mesi. Fu durante la seconda Intifada che divennero frequenti gli attentati suicidi da parte dei palestinesi, i quali colpirono le principali città israeliane, prendendo di mira soprattutto luoghi di aggregazione come autobus e locali notturni. Gli israeliani reagirono con una repressione militare che causò altre centinaia di morti, decine di migliaia di feriti, distruzione di case e di ettari di terre coltivate, e dando il via alla costruzione del Muro di separazione. Il 28 settembre 2006, a sei anni esatti dall’inizio della seconda Intifada, molti mezzi di comunicazione riportarono la cifra di 4.312 morti palestinesi e di 1.084 morti israeliani
Tratto dal blog di Piero Maderna “Questa è la nostra terra”
(tempo di Lettura circa 1 minuto)
Il Palazzo di Hisham è un complesso residenziale invernale dei califfi omayyadi. Fu eretto tra il 743 ed il 744 a cura di al-Walid II ibn Yazid II, nipote e successore del califfo Hisham ibn ‘Abd al-Malik. Eretto sul modello delle terme romane, fu decorato con mosaici e stucchi. Il complesso fu distrutto da un terremoto nel 747.
Elemento caratteristico ed emblema del Palazzo è una finestra, probabilmente crollata a causa del terremoto, ricostruita e sorretta da un apposito muretto in mattoni. Si tratta di una finestra a forma rotonda: una corona circolare in laterizio nella quale è inscritta una rosetta esalobata con al centro un foro a sezione circolare. Pare che sia stata questa finestra, la cui forma divenne nota in Europa grazie ai crociati, ad ispirare la forma dei rosoni che ornano le facciate di molte cattedrali gotiche europee.
Nell’angolo destro dei bagni c’era un diwan, un piccolo locale riservato alle udienze con gli ospiti importanti. In esso stava un delizioso e misterioso pannello in mosaico, che è arrivato fino a noi. Il disegno è un grande albero sotto il quale si vede sul lato destro un leone attaccare un cervo, mentre sul sinistro due cervi pascolano tranquillamente. L’interpretazione di questa raffigurazione non è univoca. Quella più accreditata è che essa rappresenti il bene e il male, mentre altri la spiegano sostenendo che il leone rappresenta il principe ed i cervi le donne del suo harem
tratto da Michele Giorgio, Il Manifesto, 16 novembre 2021
(tempo di Lettura circa 2 minuti)
In collina, a dieci km da Nablus, il villaggio palestinese di Sabastiya e le sue campagne sono un dono della natura per gli agricoltori della zona che hanno piantato ulivi, mandorli, grano e molto altro ricevendone frutti abbondanti. «La terra qui è fertile, generosa» ci dice Osama Hamdan. Archeologo e architetto, Hamdan ha scavato ovunque in Cisgiordania ma è conosciuto soprattutto come il musulmano che ha restaurato diverse chiese antiche cristiane, bizantine e crociate. (…) Assieme alla storica dell’arte italiana Carla Benelli, (…) l’archeologo palestinese ha girato in lungo e in largo la Cisgiordania. Ma è a Sebastiya che Hamdan e Benelli hanno concentrato una porzione importante del loro lavoro negli ultimi venti anni. «È un sito stupendo e incredibilmente ricco (…) – ci spiega l’archeologo – Quando lavoriamo per restaurare edifici e case di Sebastiya quasi sempre riusciamo a riportare alla luce muri antichi, colonne, reperti e tanto altro. Gli abitanti del villaggio vivono all’interno di un incredibile patrimonio storico e archeologico». (…) “Sebastiya fu fondata nel 25 a.C. da Erode il Grande nel luogo dove sorgeva l’antica Samaria ebraica (…). Dopo la conquista romana della regione da parte di Pompeo nel 63 a.C., la città fu annessa alla provincia di Siria e nel 30 a.C. l’imperatore Augusto la assegnò a Erode che la ribattezzò in suo onore Sebaste (…). Il cristianesimo (…) si diffuse fin dall’inizio in tutta la regione e prese piede la tradizione che il corpo di Giovanni Battista fosse stato sepolto a Sabastiya. (…)». Quella di Sebastiya è una storia ricca per i popoli e le religioni ma, affermano i palestinesi, la parte israeliana tende a privilegiare solo una porzione di questo patrimonio, l’antica Samaria. Come spesso accade in questi casi sono i coloni insediati in Cisgiordania a cercare di mettere le mani sui resti antichi. «Per Israele e i suoi coloni l’archeologia è un percorso privilegiato per affermare una sorta di proprietà ebraica sulla Palestina storica (…). Gli Accordi di Oslo dei primi anni ‘90 con la suddivisione «temporanea» della Cisgiordania occupata in tre aree – A sotto l’autorità dell’Anp di Abu Mazen, B controllo misto israelo-palestinese, e C, la più ampia (60% del territorio) controllata dall’esercito israeliano – hanno complicato lo status di Sebastiya e del suo sito archeologico, spaccato di fatto in due. L’Amministrazione comunale del villaggio e l’Anp hanno il controllo solo della parte che ricade nell’area B. Mentre l’Ente dei Parchi nazionali israeliani controlla tutto il resto, anche se qui non siamo in Israele ma in Cisgiordania. Gli Accordi di Oslo prevedono il «passaggio graduale» della gestione di determinati siti archeologici palestinesi da Israele all’Anp. Ciò non è quasi mai avvenuto sebbene siano passati quasi trent’anni dalla firma di quelle intese. Pertanto, la zona di Sebastiya dove si trova la maggior parte delle antichità è definita come Area C mentre l’adiacente parcheggio e i negozi di souvenir sono area B sotto il controllo civile palestinese. Per i coloni Sebastiya non è altro che il Parco Nazionale di Samaria. (…) L’interesse dei coloni per Sebastiya è cresciuto di pari passo con l’ascesa della destra religiosa ai vertici di Israele. La correlazione tra insediamento e archeologia incarna allo stesso tempo il controllo del presente e il controllo della storia e chi ha il «diritto di rivendicarla». Ma conta anche la battaglia per inserire definitivamente la «Giudea e Samaria», i nomi biblici della Cisgiordania, sulla mappa turistica israeliana, un obiettivo che i coloni inseguono con tutte le loro forze. (…)
Di Fabrizio Teodori
(tempo di lettura circa 2 minuti)
Sebatia sorge su un colle dominato da una grande moschea che ti accoglie arrivando da sud. Antico insediamento romano, conserva parte del teatro e del castrum, all’apice del paese, sotto una grande bandiera della Palestina che sventola rumorosamente. Il paesaggio circostante è per lo più agricolo con 4 piccoli agglomerati di case bianche sparsi qua e là. La tradizione di questi luoghi è legata alla ceramica. Un bellissimo progetto di donne che lavora al Mosaic Center è la prima visita che faccio al mattino. Siamo prossimi al Natale come testimoniano le decorazioni che stanno disegnando le artigiane e Hyad mi accompagna e traduce per me; lo conosco da soli due giorni ma sembra da sempre. Dopo pranzo andiamo a fare un sopralluogo; cerchiamo un sentiero ad anello che parta dalla Guest House e raggiunga le colline circostanti. C’è una luce bellissima, trasversale e pulita, che permette di scorgere verso la costa lo skyline dei grattacieli di Tel Aviv. Raggiungiamo dapprima una tekkia abbandonata e semidistrutta. Facciamo delle foto al paesaggio e Hyad mi racconta di questo territorio. Siamo in una zona al confine con un settlement, non mancano mai purtroppo durante il mio viaggio, e gli scontri capitano anche qui. Nablus, la vicina città, spesso è teatro di disordini e incursioni da parte dell’esercito occupante israeliano.
La gente del posto è molto accogliente, ci sono tantissimi bambini in giro. Il pomeriggio scorre denso in cammino, impiegheremo circa 3 ore. Hyad è contentissimo oggi, quasi su di giri per questo progetto nascente che sembra più concreto e vicino. Rientrati a casa abbiamo modo di rilassarci e cenare insieme. La mattina dopo saremo ancora a spasso nella parte più storica e, tra una chiacchiera ed un thè, avrò il piacere anche di conoscere il Sindaco.
Dopo giorni nel West Bank qui finalmente ho notato un’atmosfera più rilassata e pacifica, più antica. La gente che ci abita ha un suo ritmo, delle piccole economie legate principalmente all’agricoltura e al turismo; arriva anche un pulman pieno di studenti ad un certo punto.
Sono stato contento di averla visitata, seppur velocemente, a fine viaggio, prima di tornare in Italia, per poter per un attimo respirare dopo giorni intensi.
Brano tratto dal blog di Piero Maderna
(Tempo di lettura circa 4 minuti)
Battir è un villaggio di quasi 5000 abitanti che si trova circa 6 km a ovest di Betlemme. Anticamente, quando si chiamava Betar, fu un villaggio fortificato ebraico che vide svolgersi la battaglia finale della rivolta ebraica contro i romani nota come la rivolta di Bar Kokhba, nel II secolo. È situata proprio sopra la linea ferroviaria Gerusalemme-Jaffa, che fu anche la linea dell’armistizio tra Israele e Giordania dal 1949 fino al 1967. Battir si trovava pochi metri a est del confine tra Israele e Giordania. Almeno il 30% delle terre di Battir stavano dalla parte israeliana della linea verde, ma agli abitanti fu concesso di mantenerle, a patto che non causassero problemi alla ferrovia. Erano perciò i soli palestinesi autorizzati ufficialmente a passare il confine per lavorare le proprie terre fino alla guerra dei Sei Giorni. Gli israeliani si sarebbero ripresi la terra e la ferrovia se ci fosse stato il minimo problema, invece niente: neanche una pietra venne lanciata, nemmeno dalla scuola, che era a pochi metri dalla ferrovia.
La storia ce la racconta Hassan, un ingegnere civile che conosce ogni pietra del suo villaggio e che è stato l’uomo chiave del percorso con il quale Battir ha ottenuto il titolo di Patrimonio dell’Umanità UNESCO. E io sono incaricato di tradurre. Tra ingegneri dovremmo riuscire a capirci, butto lì come battuta. Ed effettivamente non è difficile, Hassan parla un ottimo inglese, con accento arabo ovviamente ma neanche troppo pesante. L’unica difficoltà è che, anche se gli ho raccomandato all’inizio di fermarsi ogni tanto e darmi il tempo di tradurre, a volte non è semplice fermarlo: ci mette grande enfasi, ha un modo di raccontare quasi da attore dal quale traspare l’amore per il suo villaggio e la sua gente. Ma comunque me la cavo.
Battir è un villaggio agricolo dove il paesaggio è cultura, un paesaggio che è stato creato dall’uomo adattando una vallata profonda per poterla coltivare, grazie a una buona disponibilità di acqua fornita da sette sorgenti. Il complesso sistema di irrigazione sfrutta, fin dall’antichità, una serie di terrazze create con muri a secco. Il sistema, costituito da una vasca di raccolta e da una rete di canali e di chiuse, viene gestito in modo da fornire acqua, a rotazione, in modo uguale a tutte le famiglie di coltivatori. È la testimonianza di molti secoli di cultura e di interazione dell’uomo con l’ambiente, come ha scritto l’UNESCO nelle sue motivazioni, una testimonianza autentica e ancora integra.
Il paesaggio delle colline di Battir comprende una serie di valli terrazzate, chiamate widian, alcune delle quali sono abbondantemente irrigate per la produzione di ortaggi e la floricoltura, mentre altre sono più secche e coltivate a viti e ulivi.
Senza contare le ricchezze archeologiche. Qui, ci racconta Hassan, gli israeliani sono venuti a scavare, nella speranza di trovare i resti del villaggio protagonista della rivolta ebraica contro i romani, ma sfortunatamente per loro hanno trovato resti cananei, romani, islamici, ottomani… di tutti i periodi ma non ebraici. Perciò se ne sono andati.
Mentre passeggiamo tra le antiche sorgenti e ammiriamo il paesaggio di Battir, Hassan prosegue il racconto. A quel punto a Battir avrebbero potuto proseguire con gli scavi e cercare di valorizzare il patrimonio archeologico, ma, a parte i costi, essendo in area C avrebbero avuto bisogno di permessi anche per fare le opere necessarie a fruire di questo patrimonio e a conservarlo, permessi che non avrebbero mai ottenuto.
Così, nel 2009, nacque l’idea di chiedere la qualifica di patrimonio UNESCO per il paesaggio, che si può conservare anche senza bisogno di permessi. Ma l’ANP si dimostrò contraria, asserendo che il primo patrimonio UNESCO palestinese doveva essere la Chiesa della Natività. Ma perché, obiettò allora Hassan, se quella comunque non potranno mai toccarla, e lo si è visto anche in occasione dell’assedio?
Allora Hassan, deluso dal comportamento dell’Autorità Palestinese, rinunciò al progetto e fece domanda per una borsa di studio come ricercatore all’Università di Melbourne. Mentre era ancora in attesa di risposta, arrivò l’opportunità di andare a lavorare a Doha, in Qatar, e decise di accettarla.
Dopo qualche tempo lo richiamarono per ritornare a occuparsi del progetto UNESCO. Lui si fece convincere ma dettò le sue condizioni: dal momento che lui non si fidava più di nessuno dei “politici” locali, voleva essere solo lui a rispondere alla commissione dell’UNESCO e a gestire i rapporti. Gli venne concesso e così il tutto si rimise in moto.
Nel 2011, Battir vinse il premio “Melina Mercouri” dell’UNESCO greca per la “Salvaguardia e gestione dei paesaggi culturali”, primo tra tutti i 104 progetti partecipanti. Un riconoscimento importante, ma soprattutto 15.000 dollari.
Nel maggio 2012, l’ANP mandò la sua delegazione a Parigi, all’UNESCO, per discutere la domanda e far entrare Battir nell’elenco dei siti Patrimonio dell’Umanità. All’ultimo minuto, però, la domanda venne bloccata perché formalmente era stata presentata fuori tempo massimo.
Nel frattempo, c’era in progetto un’estensione del muro che avrebbe distrutto ogni possibilità di conservazione del paesaggio e, nel 2007, il villaggio aveva fatto causa al Ministero della Difesa israeliano per fare in modo che fosse cambiato il percorso del muro, che avrebbe tagliato fuori una parte del sistema di irrigazione in uso da 2000 anni.
La Israel Nature and Parks Authority (INPA), che aveva approvato il percorso originale del muro nel 2005, cambiò idea e scrisse che le terrazze di Battir erano un’eredità culturale anche israeliana da salvaguardare che sarebbe stata danneggiata dal muro in maniera irreversibile. Era la prima volta che un’agenzia governativa israeliana esprimeva un’opposizione alla costruzione di un segmento della barriera. E nel 2013 l’Alta Corte di Giustizia israeliana bloccò il progetto del muro, chiedendo al Ministero della Difesa un nuovo progetto che non distruggesse il paesaggio di Battir.
La domanda all’UNESCO venne ripresentata, tramite la Croce Rossa Internazionale perché allora l’ANP non era membro UNESCO. La sua ammissione, infatti, è più recente ed è quello che recentemente ha portato gli USA di Trump ad annunciare la loro uscita dall’organizzazione. 300.000 euro, allora, arrivarono anche dalla cooperazione italiana.
Nell’estate 2014, finalmente, il tutto andò a buon fine e a Battir venne accordata la qualifica di Patrimonio dell’Umanità per le sue terrazze, il suo sistema di irrigazione e il suo paesaggio culturale.
Alla Corte Suprema, i rappresentanti di Battir poterono portare sia il premio Melina Mercouri che l’acquisizione del titolo di Patrimonio UNESCO e così, nel gennaio 2015, la corte respinse la richiesta delle autorità militari israeliane di costruire il muro tagliando in due il villaggio, separandolo dalle sue terre.
Ora il paesaggio di Battir è protetto dalla legge palestinese ed è stato creato un Ecomuseo per garantirne la protezione e la gestione, in accordo e in collaborazione con la comunità locale.
Finalmente una bella storia, una storia dove l’ingegno, la passione e la determinazione di poche persone di una piccola comunità hanno portato a una vittoria eccezionale. A diventare Patrimonio UNESCO e a impedire la costruzione del muro. E tutto questo è stato ottenuto con la forza della cultura, senza far ricorso alla violenza. Hassan ci ha raccontato che, quando si discuteva di cosa fare, nella comunità hanno ragionato, hanno guardato gli esempi che avevano davanti. Tutti quelli che avevano tentato di opporsi al muro con proteste violente avevano perso, alla fine. Il muro era stato costruito comunque e le comunità avevano anche dovuto contare morti e feriti. Loro hanno scelto una strada diversa, e hanno vinto. È un esempio veramente importante, che speriamo possa fare scuola. Sarebbe un’illusione pensare che possa funzionare dappertutto, ma abbiamo visto una tale quantità di brutture e ingiustizie, in questi giorni, che una boccata dell’aria fresca di Battir ci voleva proprio.
Intanto è arrivata anche Serena, che ci accompagna a fare qualche acquisto in una mostra-mercato dell’artigianato locale. Anche qui Hassan ci ha messo il suo zampino, convincendo un suo amico artista e spronando tutti quelli che a Battir avevano una qualche abilità nel lavoro artigianale a entrare nel progetto.
Un’altra breve passeggiata ed è ora di cena. Siamo ospiti, qui a Battir, di Hassan e dei suoi amici e compaesani impegnati nella valorizzazione del villaggio. È pronta una bella tavolata all’aperto, dove possiamo rifocillarci abbondantemente alla fine di un’altra giornata abbastanza lunga. Finalmente anch’io posso approfittarne pienamente, i fermenti lattici di Serena mi stanno rimettendo al mondo.
Dopo cena, Hassan ha ancora voglia di raccontarci una storia. Serena mi chiama, vuole che traduca ancora io, visto che con Hassan ormai ci troviamo bene… mi coglie un po’ alla sprovvista, ormai mi ero rilassato e non pensavo di dover ancora “lavorare”… ma lo faccio più che volentieri.
È una storia che risale a quasi 70 anni fa, ma che è impressa in modo indelebile nella memoria storica degli abitanti di Battir e fa parte ormai della loro eredità culturale; Hassan in particolare la racconta con la passione che ormai abbiamo imparato a conoscere e con grande orgoglio, anche perché il protagonista è un suo illustre omonimo, Hassan Mustafa.
Hassan Mustafa è l’uomo che, nel 1948, salvò il villaggio dalla colonizzazione, che durante la guerra arabo-israeliana era diventato un rischio più che concreto. La maggior parte degli abitanti erano fuggiti a causa della guerra, non dimentichiamo che questa è una zona di confine. Erano rimasti solo Hassan Mustafa e un pugno di altri coraggiosi testardi decisi a difendere il villaggio: Hassan ce li mostra in una bella foto d’epoca. Ma dovevano, per scoraggiare nuovi attacchi israeliani, far credere di essere ancora in tanti e allora Hassan Mustafa e i suoi escogitarono una serie di ingegnosi stratagemmi. Accendevano candele in tutte le case la sera, e fuochi come se la gente dovesse cucinare. Facevano andare avanti e indietro un finto plotone di guardia, con bastoni al posto dei fucili. E la mattina portavano fuori il bestiame.
Così gli israeliani caddero nell’inganno e, pensando che il villaggio fosse ancora abitato, non attaccarono. Man mano, tutti i profughi tornarono e il villaggio riprese a vivere. Ma non è finita qui, poi Hassan Mustafa fece molto altro per la sua comunità. Ad esempio, grazie a lui anche le bambine cominciarono ad andare a scuola. Fece un’opera di convincimento nei confronti dei più tradizionalisti, che erano ovviamente contrari, riuscì a trovare i fondi per costruire la scuola, e trovò il posto ideale per farla, dove c’era una moschea, proprio vicino alla ferrovia. Per convincere tutti disse che in fondo gli uomini potevano pregare ovunque, anche nei campi o sotto un albero, mentre le ragazze potevano farlo solo in moschea. E una volta che erano state ammesse in moschea, non fu difficile costruire la scuola e aprirla come scuola mista.
Per tutto questo, dice Hassan, Hassan Mustafa si meriterebbe una statua sulla collina, come quella del Cristo Redentore di Rio de Janeiro, perché lui è il nostro redentore… e come dargli torto?
Lasciamo Battir stanchi ma felici, con la bellezza negli occhi e un po’ più di speranza nel cuore.